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Il 2% del PIL mondiale: circa 1.770 miliardi di $ in 3-5 anni. Questo è l’ammontare complessivo della stretta fiscale che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) raccomanda per l’economia mondiale nel suo ultimo report di luglio al fine di riequilibrare i conti con l’estero.
Un suggerimento in linea con l’approccio standard del Fondo, ma che appare in prima battuta ignorare il delicato momento di simultaneo rallentamento della crescita in USA, Asia ed Europa e addirittura di recessione manifatturiera alle porte nell’Eurozona.
Una decisa austerity è la policy preferenziale che emerge infatti dall’analisi comparata delle raccomandazioni pubblicate dal FMI nell’External Sector Report per tutti i Paesi membri, che rappresentano il 90% del PIL mondiale. Il Fondo analizza le dinamiche dei conti con l’estero delle varie economie, cercando di identificare le policy fiscali, monetarie e le riforme strutturali necessarie a garantire un tendenziale equilibrio della bilancia dei pagamenti.
Tradizionalmente il FMI ha espresso raccomandazioni sullo stato della saldo delle partite correnti (che include esportazioni ed importazioni di merci/servizi ed i movimenti di capitali finanziari). In un mondo finanziariamente integrato tuttavia stanno assumendo sempre più rilevanza i flussi finanziari non direttamente riferibili allo scambio materiale di merci e servizi. Di conseguenza l’attenzione del FMI si sta gradualmente spostando sul monitoraggio di indicatori in grado di fornire un quadro più completo dello stato degli squilibri nei flussi di capitale, come la posizione internazionale finanziaria netta (Net International Investment Position – NIIP).
Questo importante indicatore misura la differenza tra crediti e debiti verso l’estero dei residenti di un determinato Paese; in genere la NIIP è considerata la misura più affidabile per capire se un’economia sia da considerare debitrice o creditrice netta nei confronti del resto del mondo.
Vale la pena dare uno sguardo d’insieme alle posizioni finanziarie nette delle principali economie mondiali a fine 2018. Con un discreto colpo d’occhio, è possibile identificare con immediatezza i principali Paesi debitori e creditori.
Si nota come la somma aggregata delle posizioni dei singoli Paesi in debito e credito sia ad un massimo storico di oltre 30.000 miliardi di $, un controvalore 3 volte più elevato rispetto al 2005. Gli USA sono il principale Paese debitore, con una NIIP superiore al 50% del PIL ed in crescita di 40 punti dal 2007.
Altri grandi economie debitrici sono l’Australia e la Spagna, mentre i principali creditori restano saldamente le grandi economie esportatrici di Giappone, Germania e Cina, con una crescita evidente del peso dell’economia tedesca nell’ultimo decennio. I Paesi esportatori di petrolio sono ovviamente creditori netti per via del reinvestimento dei proventi derivanti dalla vendita del greggio, ma la loro ascesa si è livellata dopo il 2014 per via della frenata del prezzo ben al di sotto degli 80$ al barile.
La crescita degli stock di crediti (debiti) va attribuita generalmente all’accumularsi di persistenti surplus (deficit) commerciali; per quanto riguarda gli USA il deterioramento della NIIP è stato esacerbato anche dal tendenziale apprezzamento del Dollaro che ha aggravato il valore reale dei debiti denominati in valuta.
Malgrado un certo restringimento negli ultimi anni, permangono squilibri evidenti in alcune economie avanzate chiave. Ciò è particolarmente vero per il nord Europa (Germania, Paesi Bassi, Svezia) e alcune economie asiatiche (Corea, Singapore), dove gli squilibri tendono ad essere associati ad elevati e crescenti livelli di risparmio del settore corporate non finanziario, che fisiologicamente dovrebbe essere prenditore netto di fondi. Per quanto riguarda le posizioni debitorie, vi è una minore persistenza (tranne che per il Regno Unito e gli Stati Uniti, debitori storici). Improvvisi cambiamenti nei flussi di capitale e nelle condizioni di finanziamento del mercato a causa di crisi di fiducia nella tenuta dell’economia hanno imposto drastici aggiustamenti in economie emergenti come Argentina, Brasile, Indonesia e Turchia.
Il report FMI per ogni Paese membro si conclude con raccomandazioni di policy monetaria, fiscale e di riforme strutturali per il medio termine (3-5 anni). Se si abbandona il livello di dettaglio per singolo Paese e si guardano i dati insieme da una prospettiva globale emerge un quadro degno di commento. In tema di policy fiscale infatti, il FMI sta consigliando un consolidamento fiscale praticamente a tutti i Paesi del mondo, con le notabili eccezioni di Germania ed Olanda.
Generalmente il FMI raccomanda sempre una stretta di bilancio quando il saldo delle partite correnti è ritenuto in deficit eccessivo. Secondo il modello di valutazione del Fondo infatti, ad un 1% del PIL di inasprimento fiscale corrisponde mediamente un miglioramento della bilancia commerciale dello 0,3% per via della riduzione delle importazioni dall’estero. Tuttavia, nel report 2018 anche Paesi che hanno una situazione di generale equilibrio dei conti con l’estero (come Italia, Cina, Giappone e Brasile) vengono indirizzati su un percorso di austerity nel medio termine. L'Italia dovrebbe passare dall'attuale 2% di deficit ad un surplus di bilancio (dopo il pagamento degli interessi) del +0,5%, varando manovre restrittive per 42 miliardi di €.
Le ragioni sono molteplici: secondo il FMI in Cina la tendenza ad una crescita del deficit delle partite correnti a causa di politiche fiscali e di stimolo al credito troppo espansive è mascherata dall’impatto negativo di una rete di welfare debole, che riduce la propensione al consumo della classe media. In Giappone sono i bassi investimenti che compensano una politica fiscale eccessivamente lasca; in Italia e Brasile la crescita zero dei prestiti bancari tiene l’economia in stagnazione ed impedisce paradossalmente che i conti con l’estero peggiorino, nonostante i deficit di bilancio ritenuti elevati ed evidenti problemi di competitività dei sistemi manifatturieri.
In media anche l'Eurozona nel suo complesso dovrebbe stringere di più la cinghia con uno 0,5% di PIL in aumenti di tasse o tagli della spesa pubblica.
Secondo le stime FMI, un taglio coordinato degli stimoli fiscali nelle principali economie indurrebbe sì uno shock deflattivo esteso, ma paradossalmente migliorerebbe gli squilibri con l’estero: ad esempio in Cina il taglio di 3 punti di PIL al budget governativo causerebbe una riduzione delle importazioni dall’estero per distruzione della domanda interna, che però verrebbe più che compensata dalla riduzione delle esportazioni verso altri Paesi come USA e Giappone, impegnati anch’essi in politiche di austerity.
In sostanza, è evidente l’enfasi del Fondo verso politiche fiscali prudenziali, che però appare non aggiornata con il quadro macroeconomico globale che sta emergendo nelle ultime settimane: la ripresa sperata per la seconda metà del 2019 sembra allontanarsi, mentre peggiorano sensibilmente gli indicatori sull’attività manifatturiera nelle principali economie esportatrici. Inoltre, non si può fare a meno di evidenziare che questa austerity globale cozza con la prospettiva attuale di una rapida discesa dei tassi di interesse nelle principali aree valutarie - anche a livelli fortemente negativi – e di una loro persistenza a livelli bassi per un periodo lungo.
Come ha evidenziato correttamente l’ex capo economista FMI Blanchard, in un contesto dove i tassi di interesse sono previsti a lungo termine intorno allo 0%, la politica monetaria ha degli spazi di manovra molto limitati e la politica fiscale deve essere a supporto della crescita economica. Soprattutto se il costoopportunità connesso all’emissione di nuovo debito – anche per economie fortemente indebitate – si riduce notevolmente.
Naturalmente le risorse raccolte dovrebbero essere destinate obbligatoriamente ad una robusta ripresa degli investimenti in infrastrutture e beni capitali; un fattore di riequilibrio che possa favorire la ripresa della domanda interna e che continua a mancare proprio nei Paesi a forte vocazione manifatturiera (Italia, Germania o Giappone), dove gli investimenti stagnano da troppi anni. Stavolta non deve essere l’austerity la risposta alla crisi.
Marcello Minenna, Economista
@MarcelloMinenna
Negli ultimi tempi le curve dei rendimenti di molte economie avanzate hanno cambiato forma spostandosi verso il basso, riducendo la loro volatilità e la loro pendenza fino ad appiattirsi se non addirittura invertirsi con tassi d'interesse a breve superiori a quelli a lunga scadenza.
Tra i fattori che hanno contribuito a questo fenomeno vi sono le politiche monetarie non convenzionali adottate dalle principali banche centrali del pianeta in risposta alla severa crisi iniziata oltre 10 anni fa e che dalla finanza si è notoriamente trasmessa all'economia reale.
Con tempistiche differenti, anche se parzialmente sovrapposte, la FED, la Banca d'Inghilterra e la BCE (oltre che la pionieristica Banca del Giappone) hanno supportato le rispettive aree valutarie di riferimento attraverso tre canali principali: le indicazioni prospettiche (forward guidance), il taglio dei tassi d'interesse e i programmi di acquisto di titoli su larga scala (meglio noti come quantitative easing o QE), con cui hanno immesso sul mercato un'enorme quantità di liquidità.
Risultato: i bilanci delle banche centrali si sono gonfiati a dismisura (+344% la Fed, +380% la Boe e +216% la Bce), i tassi d'interesse sono ai minimi storici – specie in Eurolandia – e gli indici azionari sono saliti.
Tutti contenti, allora? Non proprio. Rischio bolle a parte (con l'immobiliare che tocca nuovi massimi in paesi come Germania e Spagna), l'inflazione non ingrana e l'economia globale appare in rallentamento.
Negli ultimi 10 anni il Pil degli Stati Uniti è cresciuto quasi ininterrottamente, e anche l'Eurozona – col supporto della Bce – è tornata su un sentiero di crescita e ha archiviato il 2018 con un +1,9%. Dato medio ovviamente, perché – come sempre – la nostra unione monetaria brilla per eterogeneità al suo interno: +1,4% per il Pil tedesco e +0,9% per quello italiano.
Ma già nella seconda metà del 2018 ci sono state le prime avvisaglie di rallentamento: su base trimestrale, l'economia Usa è scesa dal 4,2% (II trim.) al 2,2% (IV trim.), con un parziale recupero nel I trimestre 2019 (+3,1%), e anche quella dell'area euro ha dato segnali di cedimento. Persino la locomotiva tedesca è in affanno con i principali indici del settore manifatturiero in sostanziale arretramento da oltre un anno e la contrazione delle vendite al dettaglio.
I timori di deterioramento delle prospettive di crescita hanno costretto le banche centrali a riconsiderare i piani di normalizzazione della politica monetaria. Il primo a ingranare la retromarcia è stato Powell: a inizio gennaio il n. 1 della Fed, torchiato da Trump e messo in difficoltà da uno shift al ribasso dei principiali indicatori dell'inflazione attesa, ha messo in stand-by il rialzo dei tassi sui Federal Funds e ha aperto ad una revisione del percorso di tapering, ossia di ridimensionamento degli attivi della banca centrale. Ma l’entusiasmo prodotto da queste rassicurazioni è durato poco: complici l'incognita sulle sorti del commercio globale e l'escalation delle tensioni con l'Iran, in molti prevedono che per il 2019 non si crescere oltre il 2,5%.
I segnali che arrivano dai mercati finanziari sono preoccupanti: dallo scorso marzo la curva dei rendimenti sui titoli di Stato americani è invertita, con i rendimenti a 3 mesi sopra quelli a due e persino a dieci anni.
USA –CURVA DEI RENDIMENTI SUI TITOLI GOVERNATIVI
Storicamente un fenomeno del genere si verifica dai 3 ai 4 trimestri prima di una recessione.
La spiegazione intuitiva è che quando gli investitori temono una fase economica sfavorevole
si spostano sui beni rifugio, come il titolo di Stato a lunga scadenza (di solito il decennale),
facendone salire i prezzi e quindi calare i rendimenti. A questo si aggiungono le aspettative
non rosee sull'inflazione testimoniate dal calo delle quotazioni sugli inflation swap e
dall'assottigliamento del differenziale tra i rendimenti impliciti dei titoli di Stato ordinari e
quelli indicizzati all'inflazione, differenziale che rappresenta l'inflazione di equilibrio
percepita dagli operatori. Di conseguenza i mercati si accontentano di un minor premio al
rischio nel medi-lungo termine e quindi di tassi d'interesse più bassi su questo tratto della
curva.
Partendo proprio dagli spread tra i rendimenti a 10 anni e quelli a 3 mesi, la Fed di New York
stima la probabilità di recessione sui 12 mesi successivi: a fine maggio questa probabilità era
prossima al 30%, lo stesso del luglio 2007, poco prima dell'ultima recessione americana.
USA - INVERSIONE DELLA CURVA DEI RENDIMENTI GOVERNATIVI E PROBABILITÀ DI RECESSIONE
Anche altri indicatori sembrano suggerire un raffreddamento dell'economia americana ed europea. Nell'ultima rilevazione l'indice delle condizioni di business percepite dal settore manifatturiero dello Stato di New York è crollato del 148%, e l'indice Bloomberg del sentiment degli analisti sulle condizioni macroeconomiche è in territorio negativo dallo scorso autunno. Nell'area euro, gli indicatori di fiducia delle imprese sono in calo da inizio 2018.
Comprensibile quindi che nell'ultimo comitato direttivo della FED, Powell abbia aperto a più d'una sforbiciata dei tassi già entro l'anno. La notizia peraltro è arrivata in tandem con un annuncio ben più inatteso, quello di Draghi che il giorno prima aveva fatto aperture a una ripresa del QE, terminato da appena sei mesi (senza contare che i reinvestimenti dei titoli già acquistati dall'Euro-sistema e giunti scadenza non sono stati mai interrotti).
Da entrambe le parti dell'oceano la finanza ha brindato alle buone notizie provenienti dalle banche centrali. Eppure qualcuno ha dei dubbi. In passato, quando la Fed aveva tagliato i tassi disponeva di uno spazio di manovra dai 400 ai 500 punti base prima di finire in territorio negativo. Oggi invece il limite superiore al tasso-obiettivo sui Federal Funds è 2,5%: la metà dello spazio di manovra del 2007.
Veniamo alla BCE: le parole di Draghi hanno spinto per la prima volta sotto zero i buoni del Tesoro francese (OAT) fino alla scadenza dei 10 anni per non parlare del Bund che ormai scambia a rendimento negativo sino alla scadenza dei 15 anni. E difficilmente le cose cambieranno se si disattiverà il limite superiore (33%) agli acquisti possibili per ogni singola emissione, magari per bypassare la scarsità di Bund disponibili sul mercato secondario.
Oggi le curve dei rendimenti sui titoli di Stato delle principali aree valutarie si somigliano tutte: USA, Regno Unito, Australia, Canada, Germania, Giappone. Sono tutte invertite o quantomeno molto appiattite.
CURVE DEI RENDIMENTI GOVERNATIVI PER PAESI APPARTENENTI AD AREE VALUTARIE DIVERSE
Addirittura le obbligazioni sovrane tedesche rendono meno di quelle giapponesi su tutte le scadenze. La banca centrale giapponese, del resto, da qualche anno ha cambiato i propri obiettivi spostandosi dal controllo dell'inflazione a quello dei tassi d'interesse (yield control), un target senza dubbio più realistico perché più direttamente collegato agli strumenti a disposizione dell'autorità monetaria. Non a caso il passaggio allo yield control è al centro del dibattito internazionale sulle nuove frontiere delle banche centrali e negli USA potrebbe diventare realtà già nel 2020.
Nell'Eurozona una riforma del genere appare più ardua a causa dello spread: difficile controllare simultaneamente 19 curve dei tassi d'interesse. La sfida per la nostra valutaria è quindi duplice: ripristinare un'unica curva dei rendimenti per tutti i paesi membri e restituire a questa curva una fisionomia “normale”. Obiettivi che potrebbero essere perseguiti in parallelo con un national twist, come proposi qualche mese fa su queste pagine, suggerendo alla BCE di concentrare – attraverso le banche centrali nazionali (BCN) – gli acquisti di titoli di Stato sui paesi più indebitati e di accantonare il criterio della capital key.
Una simile misura favorirebbe la normalizzazione e la convergenza delle curve e darebbe un segnale implicito di condivisione dei rischi (risk sharing) all'interno dell'area euro, in quanto facoltizzare le BCN dei paesi ad alto debito ad assumere più rischi sotto l'ombrello dell'Eurosistema vuol dire de facto un primo embrionale risk sharing per lo meno per la parte che eccede la capital key. I paesi molto indebitati – come l'Italia – sarebbero supportati nell'assorbimento del loro eccesso di offerta di titoli di Stato, mentre il calo nella domanda di Bund permetterebbe alla Germania di tornare rendimenti positivi con beneficio per il suo sistema economico-finanziario. Dimensione e durata dell'intervento sarebbero, peraltro, relativamente circoscritte se si chiarisse inesorabilmente che l'uscita dall'euro non è un'opzione sul tavolo dato che oggi tale rischio rappresenta spesso una componente significativa degli spread ma anche quella più facilmente comprimibile con opportune indicazioni prospettiche da parte della classe dirigente di ciascun paese.
In un momento di riflessione generale su obiettivi e strumenti della politica monetaria ed economica, ogni parte in causa ha il dovere di dare il proprio contributo per il perseguimento di una stabilità durevole a livello nazionale e dell'intera unione monetaria europea.
@Marcello Minenna - Economista
Fonte "il Sole 24 Ore"
Italia si conferma l'unico Paese dell'area Euro a non beneficiare dell'incredibile rally che stanno sperimentando i prezzi delle obbligazioni governative.
Se guardiamo al calo dei rendimenti sulla scadenza dei 10 anni, i risultati da inizio 2019 sono impressionanti: -40 punti base (-0,4%) per il Bund tedesco, ampiamente in territorio negativo, -55 per l'OAT francese, -80 per il Bonos spagnolo ed addirittura -150 per i titoli governativi greci. Nel frattempo i BTP hanno limato i rendimenti di appena 20 punti base, riducendo il divario con i titoli ellenici al minimo di sempre, appena 40 punti. La corsa verso l'obbligazionario sovereign è certo un fenomeno globale di ribilanciamento della liquidità verso attività meno rischiose a seguito del rallentamento economico e le crescenti minacce di recessione; anche i Treasuries USA hanno messo a segno un -70 punti base da inizio anno.
Tuttavia il caso greco è certamente eccezionale e merita un’indagine piùapprofondita, anche considerando il default del 2012 e le recenti rimodulazioni delle scadenze del debito. Innanzitutto vale la pena ricordare come su un debito dicirca 400 miliardi di €, soltanto 71 miliardi (il 18%) siano effettivamente negoziabilisul mercato secondario dato che il restante debito è congelato a lungo termine nel bilancio del Fondo Salva-Stati ESM. Di questi, oltre 40 miliardi sono immobilizzati all'interno dei bilanci di banche, assicurazioni e fondi pensione greci; restano per le negoziazione attiva sui mercati circa 30 miliardi di titoli, una quantità piuttosto esigua. Quando il mercato è così sottile, bastano poche mosse di alcuni importanti players per muovere significativamente i prezzi.
Nel 2019 dopo anni di relativo disinteresse dagli investitori sia nazionali che esteri, la domanda di titoli governativi greci è improvvisamente aumentata, probabilmentestimolata dalla chiusura del programma di salvataggio della Troika con “pieno successo”, nonostante il rapporto Debito/PIL al massimo storico del 181,9%. Unostimolo significativo alla discesa dei rendimenti è arrivato dal mercato interno: per la prima volta da 6 anni, a gennaio 2019 le banche greche hanno aumentato la propria quota di titoli di Stato in portafoglio del 30% con un rastrellamento di circa 5 miliardi (cfr. Figura 1).
Figura 1 RENDIMENTI E STOCK Rendimenti impliciti e stock di titoli governativi greci nei bilanci del sistema bancario nazionale. Fonte: Bank of Greece
A fronte di un flottante di soli 30 miliardi, si tratta di un'operazione in grado di dare una forte spinta al rialzo dei prezzi; nei mesi successivi il dato ha continuato a salire moderatamente, segnalando un rinnovato attivismo del sistema bancario nazionale nella gestione del debito pubblico greco.
Anche dal lato della domanda estera, nei primi mesi ci sono state grandi manovre: fondi di investimento USA e francesi sono entrati sul mercato aumentando la propria esposizione anche del +300%. Le banche europee (principalmente francesi ed italiane) hanno rotto gli indugi ed invertito un trend quasi decennale di riduzione dell'esposizione al rischio Grecia.
Il quadro finanziario di fondo pare giustificare questo rinnovato interesse sul debito greco. La Grecia non è affatto su un sentiero stabile di crescita e l'equilibrio dei conti con l'estero non appare durevole, considerata la ricomparsa del deficit delle partite correnti non appena le importazioni hanno timidamente rialzato la testa.
Tuttavia diversi parametri di carattere finanziario stanno mostrando un netto miglioramento dalla crisi del 2015. Contro ogni aspettativa iniziale, il governo è stato in grado di ottenere un surplus primario di bilancio negli ultimi 2 anni del 3,9% nel 2017 e del 4,4% nel 2018, ampiamente superiori al 3,5% concordato con la Troika. Le entrati fiscali sono in stabile crescita mentre le stime più recenti vedono
un surplus di bilancio stabile intorno al +1% fino al 2022. La probabile vittoria di un governo conservatore pro-austerity alle elezioni di fine giugno rende affidabili queste previsioni di stabilità fiscale.
Il saldo Target2 rappresenta una buona sintesi dei movimenti di capitale in ingresso/uscita dal Paese ed è in costante miglioramento. Nel mese di aprile 2019 si è ridotto a poco più di -20 miliardi di € il valore più vicino alla parità dal 2008. Al netto dei prestiti ottenuti dal Fondo Salva-Stati ESM (+47,6 miliardi, barre verde chiaro), la riduzione di 40 miliardi a partire dai record negativi dell'estate 2015 ha testimoniato un costante afflusso di capitali. Ad una decomposizione del dato, si è evidenzia un rientro di somme depositate all'estero da parte di banche e corporations elleniche negli anni della crisi (+93.4 miliardi, in misura marginale investiti in fondi comuni ed obbligazioni – barre blu, rosse e verdi).
Fino a pochi mesi fa non ci si attendeva il ritorno della fiducia degli investitori esteri sui titoli di Stato, che anzi tendenzialmente hanno subito un ulteriore decremento degli stock detenuti all'estero (barre viola). Nel 2019 tuttavia, mentre il rientro dei capitali nazionali si è livellato, la riduzione del saldo Target2 è attribuibile ad un nuovo afflusso di capitale estero sui titoli di Stato (+ 5 miliardi).
Figura 2 GRECIA - DECOMPOSIZIONE DEL SALDO NETTO TARGET2 ATTRAVERSO ALCUNE VOCI DELLA BILANCIA DEI PAGAMENTI (BOP). Fonte: Eurostat
Che ci sia una crescente fiducia degli investitori esteri in una situazione politica e fiscale stabile nei prossimi anni emerge inoltre dalla lettura degli spread sui derivati di credito (i c.d. credit default swaps – CDS), il premio pagato dagli operatori per assicurarsi dal rischio di default della Grecia. Nonostante volumi sottili, si può apprezzare chiaramente la discesa del costo di assicurazione per oltre il 70% dai livelli post-crisi del 2016, ad indicare una maggiore confidenza nella tenuta degli equilibri fiscali nonostante le recenti manovre espansive pre-elettorali dell'oramai governo uscente di Tsipras.
C'è molto più da commentare se si esaminano le differenze tra i nuovi contratti CDS basati sulla normativa introdotta nel 2014 dall'Associazione internazionale degli intermediari in swap e derivati (ISDA - un'organizzazione di categoria che riunisce gli operatori in derivati negoziati fuori Borsa) ed i vecchi contratti basati sulla normativa del 2003 (cfr. Figura 3).
Figura 3 GRECIA - PREMI DEI CREDIT DEFAULT SWAP Normativa ISDA 2014 e ISDA 2003 (Fonte: Bloomberg)
I nuovi contratti CDS basati sull'ISDA 2014 includono un riferimento esplicito alla ridenominazione in una nuova valuta come evento creditizio, mentre quelli basati sulla precedente versione del 2003 no. In sostanza, con un contratto CDS ISDA 2014 se la Grecia uscisse dall'Euro il detentore sarebbe pienamente assicurato, nell'altro caso no. Ovviamente il premio dell'assicurazione “full optional” è più
elevato rispetto a quella base; la differenza dovrebbe misurare la probabilità che gli operatori di mercato stanno assegnando all'evento ulteriore assicurato dal CDS ISDA 2014 e cioè la possibile uscita dalla moneta unica. Nel caso della Grecia questo differenziale di premio, dopo una forte discesa a seguito del salvataggio in extremis della Troika ed un successivo periodo molto volatile, si è stabilizzato definitivamente a 40 punti base, un livello non basso ma che rivela come gli operatori non stiano valutando sorprese da quel lato. Un andamento simile si può osservare anche analizzando i dati della Spagna, dove il differenziale è calato al valore stabile di 20 punti base.
Mettendo insieme i pezzi, potremmo concludere che il premio di assicurazione per la Grecia (303 punti base) per una parte è composto da quello che potremmo chiamare il rischio generico di essere un Paese periferico al pari della Spagna (circa 50 punti), per altri 210 punti da un rischio idiosincratico connesso alla debolezza economica del Paese, e per 40 punti dal rischio di uscita dalla moneta unica.
Diversa la situazione dell'Italia, dove peraltro il mercato sui derivati di credito è molto più liquido: il differenziale tra i due premi assicurativi è quadruplicato a maggio dello scorso anno in concomitanza con la definizione del contratto di governo ed è oscillato da allora intorno a livelli molto elevati superiori agli 80 punti base in risposta alle varie iniziative del governo e alla valutazione dello stato della congiuntura economica. In altri termini, il mercato ha effettuato una inevitabile rivalutazione (o in gergo repricing) del rischio di uscita dall'Euro connessa con la presenza di un nuovo governo più conflittuale sui temi del rispetto delle norme fiscali dell'area Euro, che vale all'incirca 60 punti base.
Guardando al premio del CDS nel suo complesso, per l'Italia (230 punti) si identificano 50 punti per il rischio generico, 100 per quello idiosincratico e 80 per il rischio di Eurexit.
In definitiva, il rally del debito greco non implica nessun miracolo economico in corso ma ha un razionale finanziario molto solido; se il rallentamento globale dovesse peggiorare, il calo dei tassi sul debito potrebbe consolidarsi. Un rischio di cambio limitato, rendimenti elevati ed un nuovo governo collaborativo e conservatore sul piano fiscale sono una garanzia più che convincente per il capitale speculativo orfano dei mercati emergenti.
Economista @MarcelloMinenna
Fonte "Il Sole 24 Ore"
Nelle ultime settimane si è intensificato il dibattito intorno alla revisione degli obiettivi di inflazione delle banche centrali, sia negli Usa che nell’area Euro.
Non si tratta di un caso, dato che per via della fase di rallentamento del ciclo economico le aspettative sull’inflazione futura stanno di nuovo virando al ribasso, partendo da livelli già molto contenuti. Gli operatori constatano tra l’altro come siano dominanti sulle dinamiche inflattive fattori strutturali come il prezzo dell’energia e l’invecchiamento della popolazione.
La Fed e la Bce si ritrovano dunque a sperimentare una divergenza tra i propri obiettivi e la realtà, e si teme – a ragione – che questo nel lungo periodo possa erodere la fiducia degli operatori sulla capacità effettiva delle banche centrali di controllare l’inflazione.
Attualmente gli obiettivi sono fissati a un tasso del 2% annuo; negli Usa ufficialmente il varo di questa politica di inflation targeting c’è stato a inizio 2012, ma il Presidente della Fed di St. Louis, Bullard, ha ammesso che di fatto questa policy è stata perseguita attivamente dal 1995. La revisione seguirà un tortuoso processo della durata di oltre un anno che dovrebbe concretizzarsi in una decisione di policy a metà 2020. Nell’area Euro sono 16 anni che l’obiettivo è rimasto invariato e molti, tra cui il membro del board e papabile candidato alla successione di Mario Draghi Olhi Rehn, ritengono che una revisione sia oltremodo necessaria dopo 6 anni di risultati mancati.
DEVIAZIONE STANDARD ROLLING A 18 MESI DEL TASSO DI INFLAZIONE (Fonte: Fed, Bce)
La scelta del valore del 2% nasce negli anni ‘90 da ragioni non proprio intuitive: in realtà le banche centrali puntando al 2% stavano sostanzialmente perseguendo un obiettivo di stabilità monetaria, cioè una crescita dei prezzi poco al di sopra dello 0%, minimizzando allo stesso tempo le possibilità di cadere in deflazione. Infatti, per costruzione, gli indici di inflazione tendono a sovrastimare le variazioni effettive dei prezzi, mentre storicamente
l’inflazione nel medio periodo (in 18 mesi circa) tende a fluttuare all’interno di un intervallo di 2 punti percentuali. Quindi nelle intenzioni originarie dei policy makers il 2% sarebbe dovuto essere il valore più basso compatibile con la necessità di evitare il rischio di una deflazione inattesa.
L’INTERVENTO DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA Distanza dell'inflazione realizzata dall'obiettivo di inflazione. Dati in percentuale (Fonte: Bce)
Un certo grado di indeterminatezza sulle modalità di raggiungimento di questa soglia c’è sempre stato, probabilmente voluto per aumentare la flessibilità operativa delle banche centrali. Nel tempo si è consolidata l’interpretazione di un conseguimento tendenziale nel medio periodo, ma solo nel 2016 la Fed – e a ruota nelle ultime settimane la Bce – hanno specificato che l’obiettivo va inteso come simmetrico, cioè raggiungibile anche partendo da tassi di inflazione più elevati, seppure convergenti al 2 per cento. Questi lievi aggiustamenti di tiro sembrano preludere a una ridefinizione dell’obiettivo in senso più lasco; negli Usa c’è un esplicito dibattito intorno al concetto di raggiungimento in media, tale per cui anche periodi prolungati di inflazione al di sopra del 2% sarebbero accettabili se andassero a compensare periodi con una bassa crescita dei prezzi. Parrebbe nel complesso una modalità per elevare la tolleranza all’inflazione delle banche centrali senza modificarne esplicitamente l’obiettivo.
Il quesito corretto da porsi è tuttavia se una semplice revisione dell’obiettivo sia di per sé sufficiente a modificare le aspettative di inflazione degli operatori, a fronte di cambiamenti strutturali nella demografia della società e dell’economia che tendono naturalmente a ridurre la crescita dei prezzi nel lungo periodo. A mio avviso l’esperienza del Giappone dovrebbe fornire delle indicazioni utili. Dopo anni di inflazione costantemente ancorata allo 0% nonostante l’enorme espansione monetaria del Quantitative and Qualitative Easing (3.300 miliardi di $), l’interventismo della Bank of Japan (BOJ) aveva provocato effetti collaterali importanti. Da un lato il mercato obbligazionario era diventato poco liquido e caratterizzato da un appiattimento totale della struttura a termine dei tassi di interesse; dall’altro stava provocando un marcato deterioramento dei profitti del sistema bancario, incentivandone allo stesso tempo l’esposizione verso investimenti speculativi.
Nel settembre 2016 la BOJ ha pertanto rinunciato a puntare esplicitamente al 2%, ed è passata ad una politica di yield control. In altri termini la BOJ ora punta a determinare il livello dei tassi di interesse sui titoli governativi giapponesi, sia nel lungo (0%) che nel breve periodo (-0,1%), attraverso una forward guidance (cioè esplicitando al mercato i tassi obiettivo compatibili con la stabilità monetaria) e le opportune operazioni di mercato aperto.
I risultati di 2 anni e mezzo di implementazione sono nel complesso positivi: la quantità di titoli governativi effettivamente acquistati si è ridotta rispetto al QE con minori ripercussioni negative sul funzionamento dei mercati obbligazionari e la curva è stata stabilizzata con successo grazie anche ad una corretta strategia comunicativa. Il tasso di inflazione è tornato a salire sopra l’1%, almeno fino al recente crollo dovuto al marcato rallentamento del ciclo economico.
L’adozione di una politica di yield-control per la Fed è un’ipotesi ad oggi in aperta discussione; in passato la Fed ha già condotto politiche di controllo dei tassi di interesse negli anni ’40 senza dover incrementare in maniera significativa la propria quota di Treasuries a lungo termine. Sia l’ex Presidente Ben Bernanke nel 2002 che un memo ufficiale del 2010 hanno annoverato lo yield-control nel ventaglio delle possibili politiche monetarie alternative all’inflation targeting. Le eventuali controindicazioni sono però evidenti: un pieno commitment ad intervenire tramite acquisti di Treasuries sul mercato obbligazionario più grande e liquido del mondo per controllare i tassi di interesse implicherebbe un’abdicazione al controllo della base
monetaria al fine di assecondare le dinamiche di mercato, a fronte di un attivo di bilancio di molto superiore ai 3mila miliardi di $.
L’avvio di una politica di yield-control per l’area Euro è più difficile per via della sua differente struttura dei rischi rispetto all’area dollaro. Negli Stati Uniti d’America, infatti, il principale rischio che caratterizza i titoli di stato è quello di inflazione, in quanto i mercati sanno che prima di un default, la Fed interverrebbe stampando moneta per finanziare il debito pubblico. Nell’Eurozona la componente dominante di rischiosità dei titoli emessi dai vari Stati membri (Govies) è invece quella di insolvenza, in quanto non sono previste simili facoltà per la Bce e ciò determina la presenza di 19 curve dei tassi di interesse per i Govies.
Con 19 tassi lo yield control diviene di difficile applicazione e richiederebbe quindi un preliminare intervento nel sistema delle regole dell’Eurozona in grado di ripristinare l’unicità dei tassi di interesse tra i vari Stati membri, a meno che non si valuti di perseguire un obiettivo di controllo della media dei tassi governativi dei vari Paesi, in una complessa politica “one size fits all” dalla dubbia efficacia. Non si tratta di qualcosa di improponibile: lo stesso presidente Bce Trichet, nel 2008, a ridosso del fallimento di Lehman Brothers affermò che «è assolutamente chiaro che nell’area euro noi abbiamo un unico mercato monetario, per definizione, una moneta unica e un unico tasso di interesse».
*Economista @Marcello Minenna
Fonte "Il Sole 24 Ore"
Nei giorni scorsi, infatti, la stampa, in particolare il Corriere della Sera, ha riportato diverse indiscrezioni riguardanti un emendamento presentato dalla Lega alla Commissione Bilancio e Finanze della Camera, che avrebbe previsto un bonus fiscale tale da consentire a Carige di utilizzare immediatamente e integralmente le Dta (le imposte anticipate derivanti dalle perdite pregresse).
Dato che i Dta posseduti dalla banca genovese (700 milioni circa) superano il valore dell’aumento di capitale previsto (stimato in 630 milioni di euro), questa agevolazione avrebbe facilitato sicuramente il salvataggio dell’Istituto.
Nelle ultime ore, però, il quotidiano la Repubblica e poi molte altre testate riportano che il maxi sconto sarebbe sfumato perché il Ministero del Tesoro non sarebbe favorevole a concedere un beneficio così importante, che diminuirebbe il gettito fiscale proprio in un momento così delicato per i conti pubblici e in vista della manovra finanziaria prevista in autunno.
Il cosiddetto “emendamento Carige” avrebbe dovuto, tra l’altro, favorire l’aggregazione tra banche di medie e piccole dimensioni, per rafforzare il patrimonio di istituti di credito in crisi.
Ora apprendiamo che l’emendamento al d.l. crescita è stato ritirato e, come ha spiegato il relatore Giulio Centemero, «è in fase di lavorazione. C'è un dialogo con la Commissione Europea sugli aiuti di Stato. Ovviamente ci interessa», ma questa dichiarazione stride con i continui attriti tra Governo e Unione Europea sul tema dei conti pubblici.
Il Governo, per mezzo del viceministro all'Economia, Laura Castelli, ha confermato l’interessamento, mentre il ministro dell'Economia Giovanni Tria ha dichiarato: "Ci aspettiamo sempre di avere una soluzione di mercato, spero non si arrivi mai alla ricapitalizzazione precauzionale". All’orizzonte, però, dopo il ritiro di BlackRock, non si vede alcun investitore.
Nel frattempo, i tre commissari della banca stanno avviando con i sindacati la procedura per la discussione del nuovo piano industriale presentato a fine febbraio. che, da contratto, dovrebbe essere conclusa entro 50 giorni. Dopo aver ricevuto tutte le autorizzazioni previste, i commissari starebbero in particolare formalizzando l'intenzione di concentrare sulla controllata Banca Cesare Ponti tutte le attività nel private equity dell'istituto.
Quanto agli esuberi di personale, in Carige sono attese ancora 350 uscite volontarie nell'arco del 2019, come da accordi già siglati dai rappresentanti dei lavoratori, legate al piano dell'allora a.d, Paolo Fiorentino. Di queste 50 sono già previste a luglio e 300 a dicembre. A questi bisogna aggiungere una riduzione di organico di 1.250 persone, prevista nel nuovo piano presentato a febbraio dai commissari straordinari, Fabio Innocenzi, Pietro Modiano e Raffaele Lener, sulle quali non è ancora tecnicamente partita una trattativa. Si pensa che la svolta possa avvenire dopo la seconda metà di giugno.
Intanto, noi continueremo a seguire con attenzione le burrascose vicende dello storico istituto ligure.
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